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La veglia
di Milvia Comastri (2° premio – edizione 2012 del concorso)

E ti sto a guardare, ma non ti riconosco. Non li vedo i tuoi occhi, che avevano da tempo imparato la dolcezza. E anche le labbra le vedo appena. Come se si fossero scavate una fossa fra il naso e il mento, per seppellire il sorriso.
La prima volta che mi hai sorriso è stato quando ho sbagliato  a dire una parola. Avevo detto: nella placcia c’è il mercato. E tu mi hai detto che placcia ti faceva venire in mente un posto grasso e tondo, mentre la nostra piazza era stretta e lunga. È come te, hai detto. E hai sorriso. Al tuo sorriso ho legato la parola nostra: nostra piazza, avevi detto. Ho capito che sarebbe andato tutto bene, da quel momento, e che sarebbe andata via quell’onda scura che ti riempiva gli occhi, quando mi guardavi. Ti ci erano voluti tre mesi, per mandarla via. Poi me lo hai detto, il perché di quell’onda. Volevo starmene da sola, mi hai detto. Che non ti piaceva l’idea di un’estranea che ti girava per casa, hai detto. Ma avevi dovuto cedere, perché i figli potessero stare tranquilli.
Dalla cucina arrivano le loro voci. Sono ore che vanno avanti. Non sento quello che dicono, ma che stanno parlando di me lo capisco. Sono ringhi di cane, quelle loro voci. Vorrei andare in cucina e dirgli: State zitti!  Ma rimango con te, perché non so fare altro.
Erano mesi che non si facevano vivi. L’ultima telefonata a Natale, e già  siamo ad aprile. E tu che dicevi: Hanno tanto da fare, non hanno tempo. E poi lo sanno che ci sei tu, per me. Non sono cattivi, dicevi, mi vogliono bene. E io che ripetevo: Sì, non sono cattivi. Non trovano il tempo. Ma intanto pensavo che il tempo io, al posto loro, lo avrei trovato, e mi veniva da farti una carezza sul viso reso stanco dagli anni. Ma la mano mi si fermava, perché c’è stato sempre un pudore dei gesti, fra noi.
E continuo a guardarti, mentre ti tengo una mano, ora che il pudore non fa più muro, e dalla finestra entra l’aria  salata di mare e arrivano le voci dei gabbiani e della vita che continua. Al mare ci andavamo anche d’inverno. Mi dicevi: Copriti bene, che c’è vento, oggi. Ti piacevano quelle mattine ventose, con le onde del mare che sbattevano sulla scogliera e si aprivano in spruzzi bianchi, per poi ritornare giù, e lasciare il posto ad altre. Mi raccontavi che nell’infanzia il mare ti faceva paura, ma che un giorno hai pensato che era brutto avere paura di una cosa tanto bella, allora hai deciso di entrare nell’acqua. E il mare mi ha abbracciata, dicevi, mi ha abbracciata e io ho abbracciato lui, ma piano, con dolcezza, come due fidanzati giovani giovani, raccontavi. D’estate, alla spiaggia ci andavamo poco prima che il sole calasse. Dicevi che quello era il momento più pulito del giorno. C’erano volte che camminavamo  fino  al molo, tu con quei tuoi passi lenti, come se i piedi avessero parole da pensare e non volessero farsele  sfuggire. Io che a fatica rallentavo il passo, che sempre ho camminato veloce, nella mia vita. Sempre a rincorrere qualcosa, o qualcuno.
Stavamo in silenzio, per la maggior parte del tempo. Poi, quando era ora di tornare, cominciavi a dire: Quando era vivo mio marito… Ed era come se ti fossi ripassata una storia, dentro di te, mentre camminavamo sul bordo del mare, e, finalmente sicura, la tirassi fuori. Raccontavi con una voce incantata, sentivo note di musica felice, nella tua voce. Come se raccontassi l’Eden. Io ti ascoltavo, io, che il marito ancora ce l’avevo vivo, ma non era l’Eden, la mia storia, pensavo. Dicevi di lui, di come fosse gentile e bello, non proprio bello, aggiungevi, un tipo alla Jean Gabin, così, ma gentile. Non sapevo chi fosse Jean Gabin. Una stella del cinema, mi hai detto. E quando siamo arrivate a casa mi hai fatto vedere una sua foto, su un giornale ingiallito e hai preso la foto del matrimonio e l’hai messa vicino alla fotografia del giornale. Sì, ho detto, si assomigliano. Anche se non lo pensavo. Per farti piacere, l’ho detto.
Chissà dove le metteranno, loro, le fotografie. E i

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tuoi libri, quelli che mi leggevi ad alta voce. Senti come è bella la mia lingua, dicevi, e mi spiegavi ogni parola che non conoscevo, e mi si apriva un mondo, davanti agli occhi. Li butteranno, loro, quei vecchi libri. Butteranno i libri, la fotografia di Jean Gabin  e gli asciugamani che, mi hai detto, avevi ricamato per il tuo corredo.
Continuano a ringhiare, di là. Ringhiano per  quel foglio.  Per quel foglio che hanno trovato, uguale a quello che tu hai portato dal notaio, saranno due mesi. Me lo hai letto, quel foglio. C’è scritto che mi lasciavi la casa,  quando saresti morta. E io ho detto: No, lei non muore, signora.
E invece.
Questa mattina mi hai detto: Non ho voglia di alzarmi. Dormo ancora un poco. E non ti sei svegliata più.
Ma io la casa non la voglio. Non è casa mia, adesso che te ne sei andata.
Adesso glielo vado a dire, ai tuoi figli, che non la voglio. Che stiano tranquilli. Che la casa è loro.
E che facciano silenzio, alla fine.


Documentazione Bacucci
di Giulio Righele (3° premio – concorso 2012)


Salivamo a piedi io e il Cimasa che era una mattina appena tersa. Passa mica dai Dioboni ci dicevo io al Cimasa.
«U n passa mai nisun» diceva lui.
L’autobus non arrivava. Quindi ci incamminammo, l’uno a tener dietro all’altro che parevamo ancor più ridicoli, già che seguivamo la linea bianca della strada.
Lasciavamo allora la campagna deserta e umida luccicare ancora un’ultima volta, un’ultima volta prima di non tornare più.
Erano i primi giorni di marzo e il sole usciva carponi tra le pareti delle rocche circostanti, scivolando piano come attraverso una scacchiera disposta orizzontalmente tra i diversi piani ricurvi e spigolosi delle murature.
Più in là piccoli rumori non distinguibili e inesplicabilmente stratificati tra loro salivano dalla strada.
Il Cimasa si arrestò d’un tratto badando a una serie di frammenti di vetro rotti contro un terrapieno a bordo della carreggiata.
Facemmo un passo indietro, accorgendoci che dalla strada proprio in quel punto usciva quasi non facendosi notare un breve sentiero.
«Cus ch’a fasém adés?»
«Tutti i documenti li abbiamo qua con noi» risposi, tenendomi sul sicuro, ma brancolando celatamente nel vuoto di fronte alla possibilità di seguire un’ulteriore pista.
«Cus ch’a fasém maresciallo?» ripetè con l’aria di chi sembra dare dell’ingenuo a un professore.
Raccolsi un frammento facendomi largo tra gli altri sparsi a decine, riuscendo a leggere qualcosa di più interessante.
«29 del 2».
«Cade bisestile quest’anno?»
«Sì ma va un po’ a sapere te». Poteva esser due anni fa come tra due, sembrava dire l’etichetta come il Cimasa.
Può essere stato chiunque qui pensai tra me e me, ma dovevamo tentare. Girai le spalle per primo e mi infilai lungo il sentiero.
Ci incamminammo immersi nell’ombra. I rami dei mandorli ci avvolgevano tutt’intorno e le foglie picchettavano qua e là qualche raggio. Il viottolo s’inoltrava sempre più, e dopo circa mezz’ora spuntavamo con le nostre teste fuori dall’ultima curva.
«Un casolare qui?» chiesi al Cimasa.
«Casa dell’Antonio quella» ribattè.
«Fammi controllare».
Presi i documenti facendo correre come un pazzo gli atti catastali uno dopo l’altro per vedere se era vero.
«Vuoi saperne più di me adesso?»
«A t’ho dét ch’a n so gnint».
Non ve n’era traccia. Eppure quella casa colonica in pezzi che si stagliava davanti era visibile anche dalla strada.
Sollevai un ramo che tagliava in obliquo una staccionata tutta in pezzi, quindi mi feci largo tra le felci e i detriti dei coppi. Mi portai su un lato, all’ingresso di un porticato dismesso. Alcune colonne gettavano un’ombra solenne e sinistra mescolata a un forte odore rancido di umidità e di pascolo. L’umidità era ancora così forte e subito percepibile che pareva viva, come non l’annusavo da anni.
Ero sempre più estraniato e preoccupato di trovare una spiegazione, non solo razionale, ma per lo meno che spiegasse il mio eccezionale stato emotivo.
Superammo un grande basamento di pietra ruvida quasi verso la fine del colonnato.
La copertura pericolante ora si apriva del tutto non lasciando intuirne una fine, ma quasi una prosecuzione.
Nessuno si ricordava più di Antonio. Tutti i conti erano regolati e le successioni al loro posto. Eppure parevano pezzi sparsi qua e là come quella stalla marcescente.
Ci spingemmo ancora oltre superando l’apertura e osservando il riaprirsi della pianura.
Noi, io e il Cimasa, osservavamo quelle colonne del porticato che continuavano come scheletri fossili più sotto, lungo il declivio che riportava al fiume.
Più in là il campanile di una pieve romanica batteva le dodici in punto.
Il paesaggio era qui insolitamente uniforme, uniforme era la luce che scivolava sopra. I prati ordinati e luccicanti muovevano lo sfondo da ovest a est e da est a ovest, dalle colonne sporgenti della vecchia stalla fin su alle mura tozze e lievemente sottodimensionate del campanile dell’antica pieve.
Come per quelle colonne, quelle mura erano già forti di una forza dipendente quasi esclusivamente dal resto del paesaggio antistante. E indipendente dal resto della storia, che pareva solo una spiegazione più dettagliata di un discorso in sé così già maturo e concluso.
Quel rumore incessante ora, isolato sullo sfondo poco lontano, si distingueva nettamente come il lavorio di un pastore. Pareva di sentirlo sospirare sorridendo tra quel formicare di suoni e odori e segni.
D’improvviso pensai che fosse lui, Antonio, nonostante tutto ne fui certo. Mi girai di scatto, forse istintivamente guidato da tutta quella luce che tornava e dal diradarsi della pioggia e della foschia di poco prima. Il Cimasa si girò in quell’istante con me, ma niente si scorgeva più all’orizzonte. La guida del gregge non era visibile. E nemmeno il pascolo.
Ero pur sicuro di tutto ciò per una certezza assoluta, millimetrica eppur fragile, incerta, misteriosa.
In mezzo a tutto quello restava solo una strada di dubbi. Il tempo girava velocemente e più in là si scorgevano già altre nebbie.
E ancora una volta, insieme, davvero non sapevamo.


OLTRE LA CRONACA
Giallo a Rimini: ritrovato una gamba in un fosso
Di Pierina Dominici (premio speciale miglior autore riminese – concorso 2012)


Coraggio piccolo, muoviti, vieni avanti, ancora un paio di cespugli e mi troverai. Non lasciarmi marcire in questo fosso tra cartacce, foglie secche e rifiuti d’ogni genere. Sbrigati o di Buki la stella non si saprà mai niente. Dici che ti tremano le gambe, senti brividi nell’aria e odore di morte nella terra? È un bel modo per dire che sei terrorizzato. Coraggio, non fare il fifone, non vorrai dare ragione a quel botolo smargiasso del tuo amico. Se scappi ti rovini la reputazione per la vita.
Forza, avanza di due passi, verso il cavalcavia. La pioggia battente mi ha trascinata di qualche metro in questo canale fradicio di colori, è una fortuna, altrimenti non mi avresti mai visto. I tuoi genitori hanno fatto assoluto divieto d’avvicinarti al luogo dove mi hanno scaricata, hanno ragione, è un posto malfamato, frequentato da puttane e trans di tutte le razze. È per loro che mi hanno lasciata qui, sono un messaggio inequivocabile: “Ecco cosa succede a chi vuole fare di testa sua”. Io lo sapevo che sarebbe finita così, ma ero troppo stanca, delusa, nauseata. Avevo così tanta rabbia dentro, ero stufa di quella vita di schiavitù, vendere il mio corpo sette giorni su sette per arricchire gli altri. Ho lasciato il mio Paese per fare denaro in fretta, volevo essere una donna ricca e libera, invece mi sono ritrovata sulla strada, costretta a lavorare col sole e con la pioggia, aspettando i clienti coperta da una minigonna d’argento al caldo dell’estate e al freddo dell’inverno. Tutto per versare alla Maman il denaro per il vitto, l’alloggio, la tariffa del marciapiede e, soprattutto, per risarcire il debito che ho contratto per arrivare in Italia. Quando sono partita non immaginavo che avrei toccato il fondo dell’inferno.
Coraggio, sei un ragazzino temerario in cerca d’avventura, è l’occasione per mettere alla prova il tuo intrepido ardire. Ecco quasi ci sei. Fermati, non scappare, respira profondo. Torna indietro, guardami, non ti spaventare, sono solo una gamba. Fai conto di vedere quella della Barbie che tante volte ti sei divertito a strappare per indispettire tua sorella. Bella forza, mutilare la sua bambola preferita. Hai ragione saputello sadico e insolente, non sono così elegante, liscia e affusolata. Sono una gamba più grande, scura, orrida. Sono rimasta così a lungo nell’acqua che mi sono gonfiata, sembro più grossa di quanto in realtà ero. Sembro la gamba di un uomo con questo grande piede? È vero, avevo piedi grandi, prima d’imparare a dondolare sui tacchi a spillo ho camminato scalza per lungo tempo, nel mio villaggio nessuno portava scarpe.
Coraggio, torna indietro, non fare il coniglio. Sono indolente come un tronco che male potrei farti? Non lasciarmi sola a rabbrividire nell’aria gelida. Dici che hai una fifa blu? Hai smesso di pavoneggiarti da duro. Non mi guardare tramortito, il mondo è pieno di cose orribili e sconvolgenti. Neppure io avrei immaginato quanto. Durante il viaggio però ho cominciato a capire. Un viaggio interminabile, sfiancante, spietato. Una notte il Brother mi ha fatto salire su un furgone con altre donne, dopo due giorni ci ha lasciato in una casa di transito, vendute ad altri trafficanti. Era solo il primo scambio di criminali. Abbiamo aspettato altri due giorni poi siamo salite su un container, stipato fino all’inverosimile di altri migranti, disperati col sogno dell’Europa. Per giorni abbiamo vagato nel deserto, seguendo una pista segnata da ossa e cadaveri umani.
Coraggio, non rimanere lì paralizzato, togli dal viso quella smorfia sbigottita. Questo odore stomachevole ti dà la vertigine? In effetti sembri un troll ubriaco. Lo stomaco si dilata e si contrae? Non vomitarmi addosso, per favore. Bravo, non d’afflosciare, non farti fottere dalla paura. Ma non fare il pedante perbenista, non sono io che ho inventato il mestiere più antico del mondo. L’amore a pagamento esiste perché la richiesta è molto alta, sono più dei pesci nell’oceano gli uomini di ogni razza, ceto, età, disposti a sborsare denaro per affittare un corpo. Dici bene, l’amore a pagamento è una vergogna. È una vergogna come la povertà, la fame, l’indifferenza…
Coraggio non piangere, sei quasi un uomo ormai. No, non ho nostalgia della vita, come potrei? Ho conosciuto solo occhi crudi e lascivi. Sono contenta di essere uscita da quel tunnel di maledizione. No, non tornerei indietro, la mia vita è stata solo crudeltà e abbrutimento. Nessuno mi ha mai amato, neppure il cliente gentile, vecchio abitudinario, in cerca di comprensione e d’affetto. Nemmeno il giovane che si diceva innamorato, troppo timido o sfigato per trovarsi una ragazza. No cucciolo, nessun rimpianto. Come potrei desiderare di tornare alla mia squallida, schifosa esistenza.
Coraggio vai a casa, chiama qualcuno. Fammi uscire da questo solco nero e melmoso. Sei pallido, stremato, sconvolto… è difficile sopportare la malvagità? Su smetti di singhiozzare, vai a denunciare la mia presenza. Dimostrami che il cuore dell’uomo è ancora capace di compassione.